Intervista con l’artista albanese Anila Rubiku
Anila Rubiku (1970) è una giovane artista albanese che assieme ad alcuni suoi colleghi (Orion Shima, Gentian Shkurti, Eltjon Valle, Driant Zeneli) ha partecipato alla Biennale d’arte di Venezia 2011 sotto la guida del curatore Riccardo Caldura. Anila ha compiuto i suoi studi superiori all’Accademia di Belle Arti di Brera e in seguito si è dedicato molto alle tematiche dell’immigrazione. In occasione del rinomatissimo veneziano Rubiku ha rilasciato una breve intervista a Herald Qyqja per Albania News.
Anila, com’è andata la presentazione dei tuoi lavori alla Biennale? Molto bene, il feedback è stato positivo da parte del pubblico e sono perciò soddisfatta. Cosa ci puoi altro dire su questa Biennale? È la prima volta, in occasione di questa biennale, che ho lavorato non sull’immigrazione, ma sugli immigrati che vivono in un paese che non è la loro madrepatria e nello specifico sulle problematiche che essi affrontano per integrarsi (prendere i documenti, la cittadinanza) e mi sono chiesta cosa accade della loro identità? A tal proposito sono spesso colpita da come molti albanesi hanno in qualche modo dimenticato le loro radici, e lo si nota in molti casi, basta per esempio salire su un aereo che va in Albania e sentire i genitori che parlano ai loro figli solo in Italiano. Questo è successo per diverse ragioni: la povertà in cui si trovavano gli albanesi, le storie brutte che sono accadute… In un progetto che ho seguito a Casal Monferrato (4500 abitanti, con una presenza notevole di albanesi) ho potuto notare che la stragrande maggioranza dei genitori non parlava albanese, non diceva di essere albanese, quasi si vergognavano a dire che erano albanesi. Come mai sei andata via dall’Albania? Sono venuta a Milano per studiare, poi a sempre per lo studio sono andata a Parigi e Vienna, e ho girato molto per l’arte, però non sono mai emigrata. Hai avuto modo di seguire le recenti elezioni che si sono svolte? Si, in parte, e mi ha colpito molto il cambiamento radicale che c’è stato nell’immagine della propaganda politica: i politici sono proprio cambiati radicalmente sotto il profilo estetico. Qualche anno prima si poteva notare che chi entrava in politica aumentava cosi tanto il proprio peso che non si riusciva più neanche a riconoscerlo. Mentre adesso a quanto pare si sta molto più attenti a questo fattore, ma nella sostanza non è cambiato proprio nulla, proprio nulla, tutti rubano e non propongono nulla per i giovani, per il territorio, lavorano solo per i loro figli, pensano solo a riempire le tasche, nessuno pensa al futuro, alle scuole pubbliche ecc. E non è possibile che per ogni elezione si tirano fuori le armi sia da destra che da sinistra. Sono, siamo drogati dalle armi. Adesso la penso cosi, ma spero di poterlo pensare ancora per poco… Questo accade anche nei politici della giovane generazione? Si, tutti, con la politica ci si può arricchire, e perciò non mi stupisce che succeda con tutti. Ti racconto questa: un giorno ero in autobus sulla tratta Durazzo-Tirana, pensa con solo 1000 dei vecchi lek, sì perché io prendo solo i trasporti pubblici in Albania. E parlavo di politica con un contadino, che mi disse “fino a poco tempo fa questi politici erano persone che avevo solo le loro mutande, e invece adesso sono tutti miliardari”.. ma come hanno fatto? E in futuro pensi di tornare in Albania con questo clima politico cosi difficile? Si, entro gennaio 2012 mi trasferirò a Durazzo. Poi del resto ovunque vado nel mondo sono considerata artista albanese, perché quindi non tornare in Albania per lavorare sull’Albania, ci sono molte cose buone e positive su cui lavorare che purtroppo spesso sono coperte dalle brutte cose.. Penso al cemento che è stato buttato nella mia città, alle costruzioni costruite senza nessuna regola, con i loro scarichi in mare, e poi in mare chi ci va in quello mare… E come ti senti nel tornare nella tua madrepatria? Direi positivamente, ho piacere nel lavorare per il mio paese e di dare il mio contributo all’arte. E cosa succede nel mondo dell’arte in Albania? E un campo dove si può lavorare molto e l’arte albanese sta dando dei spunti molto positivi e non solo nel campo delle arti visuali. Per concludere dove sarai in futuro con le tue opere? Sarò Vienna alla IG BILDENDE KUNST con una mia mostra personale e in Belgio alla 7th International Triennial of Contemporary Textile Arts-Tournai.
Presentazione dell’installazione curata da Anila Rubiku
Anila, con l’installazione “Other countries, other citizenships”, lavoro presentato per la prima volta alla Biennale di Venezia, affronta, senza alcuna nostalgia, alcune questioni legate alle problematiche che si innescano quando le persone lasciano il loro paese e cosa questo significhi per loro l’incontro con altre culture e abitudini. L’installazione si fa di due parti: La prima parte è creata da decine di appendiabiti appesi ai muri sopra ai quali è stata una singola lettera di una frase “The person who disowns his own language in order to adopt a different one changes identity and disillusions”. Gli appendini sono l’esplicito richiamo all’abito, a quello che indossiamo per essere parte della società nella quale viviamo. Appendere l’abito indica per Anila il gesto molto concreto e quotidiano dello spogliarsi dell’identità che indossiamo nell’ambito pubblico della nostra relazione con gli altri. Chi ha lasciato il proprio paese di provenienza perché a causa di numerose vicissitudini, è forzato ad indossare un altro abito, cioè a conformarsi ad una nuova condizione, in qualche modo ad uniformarsi, o vivere spesso un deludente processo di trasformazione per integrarsi e allo stesso tempo avviarsi verso la perdita la storia individuale a partire in particolare per qui immigrati di prima generazione, La seconda è realizzata da Cappelli da uomo, capo di abbigliamento da indossare in pubblico e non, portato sia per proteggere quanto per esibire la testa. Anila si chiede con questa seconda parte della sua installazione cosa si cela nell’esibizione pubblica del capello? E la risposta è quanto mai originale, perché rende il cappello, copricapo maschile per eccellenza, la superficie dove affiorano i pensieri e le immaginazioni della persona che lo indossa. Quindi la condizione di appartenenza e sulla questione della cittadinanza passa così dal pianto etico e politico a quello esistenziale e simbolico.